Al primo invito del Consorzio ho chiesto “dov’è?”, poi c’è stato BERGAMO EN PRIMEUR e ho risposto “vabbè”, infine una resa dei conti denominata VALCALEPIOGRAM che ha radunato guelfi e ghibellini… “eh”.
Da intendersi come domanda o esclamazione, occorre innanzitutto allontanarsi dal giudizio immediato e riavvolgere il nastro per ripercorrere le motivazioni di una società che dall’alba dei tempi fino agli ultimi rampolli di una classe industriale privilegiata ha deciso di allevare qui la vite, in questo grazioso giardino conteso tra dogi e lombardi che dalla Val Brembana sfiora le piste dell’Aeroporto di Orio al Serio. Un po’ Cabernet Sauvignon e un po’ Merlot, senza scimmiottare né Bolgheri né Bordeaux, è il Valcalepio rosso DOC il prescelto che all’unanimità potremmo definire il cavallo di razza della Valcalepio, o se preferite, il protagonista, specchio di una lavorazione decisa e tradizionalista, erede di uno spaccato societario in cui il tramandarsi contadino vede l’inferocita contrapposizione di nuove generazioni in cui la massima “come lo faceva mio nonno” non rientra nel proprio leitmotiv.
Ma in scena ci sono anche altri componenti, altri vitigni e altre idee… un po’ racchiusi nello stemma (e il disciplinare) del Colleoni e un po’ a far da sé, per filosofia o per esigenza, in quello che potremmo definire un tipico ritratto di famiglia all’italiana in cui ci si gioca a fare i dispetti l’un l’altro internamente, mentre da fuori non hanno ancora ben compreso di che cosa stiamo parlando.
E allora chi meglio di lui, Roby Facchinetti, bergamasco per eccellenza, storico frontman dei Pooh e discusso seguace di Scientology, può fare da bisettrice tra fatiche, contraddizioni e gesta d’amore in questo brano che non punta al disco di platino, ma vuole rovesciare quell’immagine di vino in caraffa per servire il proprio territorio tra teoria, illusione e realtà.
Sarà così che in una frase estratta dal 33 giri e le teorie di Ron Hubbard, che voi vogliate crederci o meno, si parlerà di Kalos-Epias, terra dolce tra i due fiumi come l’antica Mesopotamia, dammi solo un minuto.
Maestro, vai con la musica:
MOSCATO DI SCANZO
“Tu mi piaci forte, tu mi prendi dentro… e non c'è bisogno che ti dica quanto. Ma la vita a volte ha i suoi comandamenti, qualche volta da difendere anche con i denti. Ti vorrei, ma lo so, non si può” - La donna del mio amico
Questa appena ascoltata sembra “ispirata ad una storia vera” se analizziamo la situazione tra il Consorzio Valcalepio e la DOCG Moscato di Scanzo, con il primo che lamenta una delimitazione nei confini troppo austera in cui ci si impossessa dell’omonima zona e vitigno, mentre la seconda cerca nel proprio piccolo (piccolissimo se andiamo a verificare gli ettari e il numero di bottiglie prodotte) di dare un target diverso a quell’antico vino da messa che vuole ora celebrare nuovi banchi e cerimonie. È la pecora nera della famiglia Moscato, o meglio, quello a bacca nera che dalla stirpe ha acquisito un profilo aromatico (a tratti) simile ai suoi discendenti, ma vede il suo futuro in un lembo di terra tra Scanzorosciate e pochi altri comuni, ritrovando la propria comfort zone tra un appassimento e una pennichella in botte. Ne abbiamo assaggiati diversi, in Cantina e in batteria, tra le colline in cui De Toma lo affina a fianco di barriques a marchio Gamba, in cui TM non indica il marchio registrato bensì il grado di tostatura, per poi attraversare la strada dove Magri Sereno lo veste in maniera più magra, stai sereno. Della Presidente Pagnoncelli Folcieri ricordo gli affascinanti affreschi in etichetta mentre sono sicuro che andrebbe in esaurimento scorte il Valcalepio passito prodotto da Grassenis se i miei amici venissero a conoscenza della sua versione. “Se ne parla poco perché ce n’è poco”, ecco come mi hanno risposto più volte i produttori e se siamo tra quelli che non voglion mica la luna come Fiordaliso, possiamo accontentarci di un pezzo di sass de luna per scoprire fin dove può spingersi il Moscato di Scanzo nelle annate, nelle diverse estrazioni, concentrazioni ed affinamenti, trasformando l’antico vino “casa e chiesa” in un moderno compagno di abbinamenti inaspettati. Alla guida delle attività di promozione c’è Federico Bovarini, un ottimo segnale.
“Le sue capacità sono illimitate, anche se non attualmente conosciute.”
VALCALEPIO ROSSO
“Sono un uomo strano, ma sincero. Cerca di spiegarlo a lei, pensiero. Quella notte giù in città, non c'ero. Male non le ho fatto mai, davvero” - Pensiero
Che si sia ispirato all’emblematico guerriero della città, il Colleoni, o ai contadini dell’area, questo è un mistero, ma temo non esistano parole più attinenti in grado di coincidere sia con il vino sia con gli stessi produttori. Perché il Valcalepio è un po’ così, a tratti rozzo ma con lo sguardo sincero, quello che osserva e riflette anche se a volte borbotta. Viene un po’ da ridere a guardarlo in giacca e cravatta, ma poi, sfuggiti alle apparenze, ci gratifica la sua umanità. In particolar modo, è il Valcalepio rosso ad incarnarne lo spirito guerriero a difesa della città che da un lato, scontento del proprio distacco dai vicini, spia la Valpolicella emulandone gli appassimenti, dall’altro corre ai ripari emanando una nuova “carta costituzionale” (o più esattamente disciplinare) in cui alcune varietà sono ora ammesse, mentre quelle maggiormente resistenti possono soccorrere l’eroe ferito. Il bipolarismo rimane comunque tra Cabernet Sauvignon e Merlot, con ogni annata a sancirne come alle tornate elettorali le diverse percentuali che, lungi dall’essere ripetitivi, devono trovare una corrente qualitativa volta a sgrassarne gli esuberi e definire una fotografia dell’equazione versante/annata, come nel caso di Tosca che da Pontida non issa la bandiera verde ma un campione di flysch, o Le Corne che dagli slogan lungo il check-in del Caravaggio immagina il proprio rosso come un bacio Perugina liquido; mentre a farci da parametro “classico” è la Cantina Sociale Bergamasca. Un nome che potrebbe allontanare i radical-chic in quanto Cantina Sociale è meno “cool” del vigneron in Iphone e infradito, ma è proprio in questi territori così ingessati tra modernisti e “chi fa da sé” che questo profondo know-how ci fornisce un identikit ben preciso di suoli, esposizioni, rese, cambiamenti e non vuole sbattere la porta in faccia a nuove proposte, purché seguano i principi che lo hanno originato... stiamo pur sempre parlando della terra di un condottiero, l’indole protettiva è nel DNA di queste persone.
“Addestrato o meno, audito o meno, lo Scientologist (il Valcalepio) è un avventuriero. Molti uomini nel corso dei secoli avranno il possesso della Terra. Lo Scientologist (il Valcalepio), oltre a visitare molti universi, non si preoccupa di CHI li possiede. E questa è la prova di colui che è superiore ai Re: il fare vale tanto quanto l’avventura stessa”
FRANCONIA, MERERA, INCROCIO MANZONI BIANCO, INCROCIO TERZI N1
“Dentro di noi facciamo grandi disegni, ma se si accende un desiderio lo spegni. È così che rinunciando moriamo, ma noi stavolta no, non ci caschiamo. Dimmi di sì, senza promesse, senza studiare le prossime mosse, perché ci piace, perché ci incanta” - Dimmi di sì
Nel Belpaese mosaico di autoctoni e varietà poco conosciute, non si è fatta eccezione nemmeno qui. Importate dalle rotte mercantili, riscoperte o plasmate in laboratorio, anche qui ritroviamo una folta presenza di vitigni meno noti o meglio, meno bevuti. Non rientrano sotto l’egida della Denominazione Valcalepio, ma il Consorzio è stato attento abbastanza da affidargli una protezione speciale, quella del Colleoni, garantendogli una DOC a difesa del territorio come l’omonimo mercenario bergamasco aveva fatto in passato. Alla corte del patrimonio ampelografico sono numerosi, ma come nell’Apocalisse ne citeremo i quattro guerrieri.
Franconia e subito pensi a Pecis, perché dal pas dosè al rosè, dal rosso all’appassimento, ha deciso di investire tutto su questo vitigno dal tannino soffice e l’ottima resistenza all’urto. Buona produttività, carattere e immediatezza, risente sicuramente delle romantiche influenze germaniche che possiamo ritrovare in questo fazzoletto disposto a San Paolo d’Argon dove è coltivato ed imbottigliato dal ’91 in purezza. Versatile funambolo di casa, è l’anima poetica del luogo.
Merera e torna quel clima da battaglia capitanato da Stefano Lorenzi che col suo “Brolo dei Guelfi” corre in difesa del papa e del pepe. Pepe bianco per l’esattezza, perché al Castello di Grumello si coltiva questa varietà in cui il rotundone fa a gara con lo Schioppettino, mentre il grappolo esile e la sua difficile gestione costringono la direzione a curare non solo il vigneto, ma l’intero habitat che comprende boschi, risorse e natura, approfittando del sole ma lavorando anche “col favore delle tenebre” in cui l’ombra, l’escursione e la mitigazione sono elementi fondamentali per lo sviluppo e la salvaguardia di questo succoso inchiostro bergamasco.
Incrocio Manzoni, dagli esperimento di Conegliano a quelli di Cavalli, non Roberto ma quello di Villa di Serio. È un oratore, poco politically correct, di quelli che “qua si fa come dico io” quando si ha le prove di ciò che si fa. Ha un carattere più denso rispetto a quelli assaggiati in Veneto, quindi poco paragone e molto geolocalizzatore. Lo abbiamo detto prima come sono qui i produttori giusto?!
Incrocio Terzi N1, la trama s’infittisce. La Cantina Sociale Bergamasca è l’incubatore, un’anfora il contenitore. Un piccolo esperimento destinato a poche bottiglie, col nobile intento di dare una spolverata a quel pezzo di storia passato di qua, alla scuola di enologia dove gli studi condotti da Riccardo Terzi avevano incrociato Barbera e Cabernet Franc in questo clone spavaldo ma raffinato, temerario nel colore e timoroso dell’umidità. Una resurrezione meno sacra quindi, ma pur sempre frutto di un grande gesto d’amore.
“Ci sono semplicemente delle attività che sono troppo divertenti per essere abbandonate del tutto”
Termina così l’ultima strofa di questo brano intitolato Valcalepiology in cui il giudizio tecnico e il clima da scoperta mirabolante non hanno fatto la propria comparsa, nemmeno leggendo l’articolo al contrario col rischio di incappare in un caso di backmasking. Questa metafora tra frasi ascoltate e canticchiate è piuttosto un gesto di riconoscenza verso le buone intenzioni, seppur dominate da sentimenti contrastanti, di un luogo che continua ad accogliermi, col desiderio di poter rappresentare a tutti i lettori, da chi lo ama a chi non lo conosceva, un racconto che possa arricchirvi nei vostri futuri assaggi di Valcalepio, apprezzandone l’onestà e integrità personale. A proposito, volete sapere perchè ho deciso di raccontarla così? Da vero valcalepiologist vi cito testualmente:
“Che cos’è l’integrità personale? L’integrità personale consiste nel sapere ciò che sai – tu sai quel che sai – e nell’avere il coraggio di sapere e di dire che cosa hai osservato. L’integrità è questa e non ve n’è altra.”
Special thanks to: Consorzio Tutela Valcalepio e Sig. Sergio Cantoni
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