“Mi chiedo se a volte un vino, prima di gustarlo, non lo si possa immaginare dalla faccia e dai discorsi della persona che lo fa. Ma altre volte, dopo averlo gustato, accade addirittura che non lo si possa più ricordare se non pensando alla persona che lo fa. Una identificazione, una immedesimazione per sempre inscindibile tra la persona e il vino, come tra alcuni artisti molto spontanei e la loro opera”.
Queste sono le parole di Mario Soldati che in un certo senso, tra le rigide, selvatiche e cosmopolite colline irpine possono essere incollate ad un vino oltre il suo personaggio: il Taurasi di Luigi Tecce.
Poliedrico, poetico, profetico. Per i suoi fan è il Messia di Contrada Trinità ma come per ogni altra divinità si alternano seguaci e bestemmie attorno al suo culto lasciando dietro di sé una piccola ma rumorosa schiera di agnostici che sottolineano questo essere vittima del suo stesso personaggio, non adeguato ai principi da lui professati o in altri casi, fautore di vini ormai troppo costosi e poco puliti.
Ma riavvolgiamo il nastro, spogliamo l’uomo dalla sua fama e raggiungiamo Paternopoli per entrare in simbiosi con il contesto, dove tra strade impervie e casolari in pietra sopravvive una denominazione, il Taurasi, così impotente da non poter mai più annoverare una di quelle etichette che l’avevano fatto conoscere nel mondo, il Poliphemo. Ma andiamo per gradi anzi, per comandamenti, in quanto dopo queste rivelazioni non avrai altro irpino all’infuori di Tecce:
1- la DOC: Uscire dalla denominazione non significa snobbare le origini o il territorio. A detta sua “gli insensati vincoli, le lentezze, i parametri e gli attaccabrighe preposti ad allontanare l’essere dal vino sono i responsabili di questa decisione che vede il sofferente brand Taurasi, ridotto a farsi le festicciole in casa per i suoi 30 dalla DOCG seguiti dalle fanfare dei soliti nomi del giornalismo campano, vanificare quell’opera di posizionamento internazionale senza individuare il proprio parametro di produzione, il cosiddetto classico, né intervenire a difesa o sostegno dello sviluppo commerciale”.
2- il MERCATO: Circa le ripercussioni di mercato, vista l’ingloriosa trasformazione dell’emblematico Poliphemo da Taurasi DOCG a Campania IGT, risponde: “dovevo informare i buyer e gli agenti circa questo cambiamento ed è andata più o meno così. Giappone, per te è un problema se dall’anno prossimo in etichetta ci sarà scritto IGT anziché DOCG? No! Stati Uniti? Non ce ne può fregar di meno. Regno Unito? Chissene frega, l’importante è che il vino sia buono. E Italia? Ecco, qui le vendite sono affidate a un importante catalogo nazionale che li ha identificati come agricoltori, artigiani, artisti e quindi va da sé che il ribelle fuorilegge non solo ottiene approvazione, ma viene quasi pontificato”. Un caso di rara fortuna dunque che vede nel declassamento legislativo la nuova spinta sul mercato. Peccato per la denominazione però, perché a volerla raccontare tutta, queste liti da cortile meridionale rischiano di percorre una carreggiata molto veloce, ma poco distante. Nel frattempo, oltre le barriere irpine, c’è ancora chi parla di “Barolo del sud”.
3- lo STILE: Per i suoi modi da Dandy del Mezzogiorno, con tanto di auto Morgan come il Renatino di Romanzo Criminale e una collezione di Borsalino da far invidia ad Al Capone, è l’outsider di quel manifesto di vigneron che amano farsi ritrarre nella domestica concezione da “vita dei campi”, dominata come nell’opera di Verga da malanni, affanni e fatiche con addosso anfibi e camicie a quadri. Ma se è vero che non bisogna giudicare un libro dalla copertina, la smania estetica che esercita su di sé il Luigi Tecce altro non è che un atto di benevolenza verso le proprie passioni e la ricerca di quei modi che lo allontanano dalle arretrate colline avellinesi, alternando quel gusto Belle Époque allo studio dei grandi classici condotti in solitudine al lume di candela. Abiti sartoriali, cravatte cucite a mano e foulard da decadente nobiltà borbonica non sono quindi né un sentimento di nostalgia né una commedia cucita addosso ad un personaggio inquieto, bensì l’hobby, per quanto stravagante, che si può concedere a qualsiasi essere umano.
4- la FAMA: Fuori dagli schermi, non avendone alcuno in casa e lontano dai riflettori, quelli che a Paternopoli si accendono solo per illuminare l’estesa notte, è un uomo solitario, taciturno, profondo. Come i suoi vini, ha bisogno di tempo per aprirsi senza mai mostrare alcuna nota di predominanza o soggezione. Vive in una di quelle case che potremmo definire “come una volta”, con grosse pentole appese alle spesse mura e una serie di mobili da cucina che ormai non rivediamo nemmeno più nei centri di raccolta. Ama il camino, del focolare e delle idee, dove riesce a connettere il proprio pensiero alla filosofia greca come come a quello dei moderni giornalisti che provano, qualche volta riuscendoci, a fargli visita. Una vera e propria Polaroid con i colori esausti e i dettagli poco nitidi, ecco la dimora che vede Luigi Tecce affrontare la propria quotidianità tra legna ardente, una manciata di ulivi e qualche fabbricato a voler disegnare la propria isola che non deve essere né felice né bella, ma riconoscente verso il proprio padrone.
4- il BRAND: Numero di follower, engagement rate, e-commerce, canali social. Oggi il mercato tira lì, tra finzione, digitale e schiavitù algoritmica, in quelle gabbie mediatiche dove tutti siamo spronati nel sentenziare la nostra modesta (o meno) opinione sul caso Ferragni o Report. La sua risposta? Estraneo a tutto ciò, il dato è semplice: Luigi Tecce è l’antimarketing di successo. Al diavolo quindi l’immediatezza, il contenuto virale e la chiacchiera di paese, qui bisogna sudarsi la pagnotta, sia per bere un suo vino, sia per incontrarlo. Il suo è un popolo che non ama ciò che produce dove manca la visione d’insieme, ma è la stessa pronta a destinargli mille attenzioni, specie se c’è qualche comportamento o malefatta da raccontare. Un caso unico? Macchè, ricordiamoci del contesto, quelle vallate verdi che nel 1980 tuonarono talmente forte da distruggerne prima la “natura”, mentre la politica ne ha poi distrutto la natura. Come ci ricorda lui stesso, questo cambiamento vede “Il contadino pre ’80 che ti offriva vino, adesso lo trovi al bar con una Heineken”.
5- la STORIA: Come nelle migliori storie di successo enologico italiano, in cui il percorso parte spesso dai contrasti ai canoni locali seguiti dall’approvazione internazionale che veicola alla fama nazionale, anche qui gli inizi si collocano in un territorio lacerato da suddivisioni interne e politiche commerciali al ribasso, con poche bottiglie a scaffale e scarsa dimestichezza nel tradurre il proprio vino alle più importanti piazze mondiali. Ma l’occhio di Tecce prima degli Stati Uniti è stato colpito da un flash diverso, quello cosmopolita e variegato della Big Smoke inglese: Londra. Come canta David Bowie “this is not America” e quindi non è stata la critica ad apportare punteggi stellati per poi aprire lo spiraglio alle vendite, bensì la copertina del Grand Tour di Berry bros. & Rudd nel 2012, dove Tecce era raffigurato come un sex symbol al pari di una foto sulla copertina del Time, portando le sue sanguigne bottiglie di rosso a circondare Buckingham Palace. Tutto il resto è storia, come quella dell’amicizia con Vinicio Capossela e quei duetti allo Sponz Fest, ma se Luigi Tecce fosse stato “semplicemente” creativo e poco pragmatico, come spesso viene apostrofato, di certo non avrebbe mantenuto quella ed altre quote di mercato espandendosi da est ad ovest lungo i 5 continenti. Cosa lo ha premiato? Di certo la coerenza, quella che lo vedo dal principio attaccare sul retro etichetta il proprio credo, quella serie di “no” che non vogliono essere un manifesto, bensì una blockchain agricola. E poi? Un’identità ben precisa, la stessa che denunciavamo prima non essersi mai impossessata del “sistema Taurasi” e fa sì che ad ogni alba di una nuova annata, in base alle rese e alle previsioni, spogliato dei suoi guanti e la sua coppola, un insolito Tecce munito di penna ed occhiali gestisce le quote di produzione da mandare nel mondo perché non se ne privi mai nessuno, a patto di non forzare quello che il suo piccolo mondo antico e le sue forze calanti riescono a produrre.
6- il SISTEMA: Viene spesso identificato nella cerchia di quei produttori di vini “naturali” ma a tutto ciò risponde, citando il cartello che lo accompagna:
IL VINO NATURALE non esiste.
Il VINO è un prodotto dell' UOMO
LA NATURA è perfetta
L'UOMO no.
I Difetti Enologici, diventati "identificativi" dei Vini NATURALI, rappresentano i limiti e la grossolanita' di chi li produce, non di certo la "virginalità" della NATURA nella sua forma più pura.
Molto simile a una tossicodipendenza, Luigi Tecce è al tempo stesso causa e soluzione di un movimento sempre più ampio ma confuso, in ribellione verso gli schemi che stanno facendo naufragare nel vittimismo tipico di una puntata della compianta Barbara D’Urso l’una o l’altra categoria, facendoci sentire come allo stadio agguerriti verso la controparte e mansueti nei confronti di quell’industria che, vino compreso, produce e distrugge ogni aspetto della nostra esistenza. Dobbiamo preoccuparci se la natura sta cambiando nei confronti dell’uomo? Certo, ma dovrebbe essere l’uomo ad essere seriamente preoccupato se non cambia la sua relazione nei confronti della natura e no, questo non è un endorsement alla causa dei vini naturali.
7- la STAMPA: Il suo nome è quasi sempre annoverato nelle guide di settore e la sua bio è spesso in evidenza, dove lo si è descritto (erroneamente) perfino come un ex fantino. Certo, un cavallo di razza lui l’ha cresciuto di sicuro, si chiama Puro Sangue ed è un Taurasi Riserva che riporta alla storia del primo miracolo di Cristo, ma da quando quest’ultimo è stato fermato ad Eboli nell’areale del Taurasi non abbiamo visto altri segni di benevolenza religiosa. Democristiani e briganti, emigrazione e luoghi ingrati, secondo Tecce l’Irpinia si è trasformata da popolo di artigiani ad uscieri, da quell’arretratezza della lettera Z di zappa alla D di depressione mentre cercava di raggiungere la A di avanzata. Stessa sorte per il suo vino di punta, il Taurasi, segnato come il destino di queste persone che storicamente puntano all’aristocrazia piuttosto che agli affari, ad emergere singolarmente nella carica pubblica anziché da baricentro territoriale, condannando la città che fu famosa per i suoi carichi di vino in partenza ad essere tutt’ora una stazione di emigrazione.
8- il BRIGANTE: Diavolo pazzo, esce ogni tanto (ancor più) fuori dagli schemi con qualche uscita bizzarra: sono le sue 666 bottiglie di Coda di Volpe rossa, in cui non manca il suo messaggio anti-sistema nemmeno in questo caso e risponde alle accuse “se trovi un ignorante, fai il brigante”.
È in disaccordo con diversi produttori locali, ma ha anche simpatie verso piccoli produttori campani così come realtà storiche del calibro di Mastroberardino. Tra lui e Raffaele Pagano, patron di Joaquin, non corre certo buon sangue, eppure sentenzia con un benevolo “siamo come testa e croce, ma a seconda della puntata qualcuno là fuori vince” quel senso di apprezzamento verso chi opera difendendo le proprie idee, seppur diametralmente opposte. Certo è che i vini di Tecce, prodotti dapprima ricercati e paragonabili al successo di una griffe di abbigliamento, sono poi diventati il vizio di diversi radical chic fino a diventare oggi, per errori a lui non imputabili, il regalo di quella categoria di finti perbenisti che sfruttano il suo lavoro per appropriarsene le idee, facendo sudare freddo il nostro povero vigneron di Paternopoli che vede travisate le proprie intenzioni. “Ho paura di finire nei cesti di Natale” mi confessa, “dove qualcuno potrebbe ricalcare sul mio nome quella etichetta di “vino naturale” che non contempla l’impegno intellettuale, ovvero quell’incontro tra l’uomo e il suo piccolo pezzo di terra”. Ma il pericolo sarà scampato a breve, quando le sue bottiglie di Taurasi (Campania IGT, pardon) usciranno con almeno 10 anni di affinamento minimo e nessuna reinterpretazione, nessun remake, porterà mai via quel cinema d’autore che questo malcapitato figlio di una terra ruvida ha messo in scena lungo un parallelo di Aglianico che dalla California tocca il Giappone e risponde al nome di Luigi Tecce.
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